Incontri: Giovanni De Sandre, l’ingegnere della “Olivetti P101”

Per parlare di software era ancora troppo presto. All’epoca era un concetto sconosciuto alla stragrande maggioranza delle persone, tecnici compresi. Però delle macchine che automatizzavano le operazioni matematiche fondamentali esistevano già. Erano macchine meccaniche, a volte molto costose. Poi arrivò l’Olivetti Programma 101, che passò alla storia come il primo personal computer al mondo. La P101, alle quattro operazioni matematiche fondamentali, aggiungeva la radice quadrata,  delle particolari operazioni sui dati sfruttando i registri disponibli, e soprattutto la possibilità di inserirgli delle sequenze di istruzioni che automatizzavano delle operazioni complesse in passi successivi: i programmi.

Ho avuto l’onore di poter porre alcune domande all’ingegnere Giovanni De Sandre, che assieme al collega Gastone Garziera, lavorarono fianco a fianco dell’ingegnere Pier Giorgio Perotto, la mente (e il cuore) della Programma 101.

Come nasce la sua storia con Olivetti?

Io sono entrato in Olivetti il 1 aprile 1960, dopo aver fatto dei colloqui precedenti che avevano stabilito la mia idoneità in quell’azienda. Mi ricevette addirittura il capo dei laboratori dell’epoca, l’ingegnere Mario Tchu, che era figlio di un ambasciatore cinese in vaticano. Tchu si era specializzato negli Stati Uniti, e questo piacque molto ad Adriano Olivetti, che lo volle nella sua squadra. Io quella volta ero appena laureato, fresco di Politecnico di Milano, e pensi, oggi la mia laurea equivale alla laurea in ingegneria elettronica, ma all’epoca non esisteva in questa formulazione, così io ho avuto una laurea in ingegneria elettrotecnica con un “attestato di studi elettronici”.

Dunque lei fu ricevuto dall’ingegnere Tchu, che poi l’assunse?

L’ingegnere Tchu era una persona molto affabile, disponibile e cordiale. Mi spiegò tutta l’attività dei laboratori, mostrandomeli uno ad uno e spiegandomi con estrema pazienza e cura che cosa si svolgeva in quei luoghi. Alla fine ricordo che mi disse: “allora ingegnere, a lei che cosa interessa di più? Una cosa in produzione o in progetto?” e io risposi un po’ intimorito “a me onestamente piacerebbe lavorare ai progetti…”. Allora Tchu mi chiese di nuovo: “ma a lei piacerebbe lavorare sull’evoluzione e sulla miglioria dei nostri prodotti già esistenti o invece su prodotti del tutto nuovi?” e allora gli dissi che pur senza voler peccare di presunzione, a me sarebbe piaciuto moltissimo lavorare su progetti del tutto nuovi.

L’ingegnere Tchu prese il telefono, chiamò l’ingegner Perotto e gli disse: “caro ingegnere, ho qui una persona che fa per lei.” Quella frase decise per sempre il mio futuro professionale. Entrai così nel gruppo di lavoro dell’ingegner Perotto, che era il mio diretto responsabile anche se aveva solo pochi anni più di me. Perotto era una persona squisita, di eccezionale cultura e capacità tecnica. Aveva un orientamento spontaneo verso la concretezza. Io fui molto fortunato perché venni catapultato in un ambiente quasi idilliaco. In Olivetti la gerarchia aziendale non era vissuta come un imposizione, non pesava. I capi c’erano, ma si rispettavano perché era naturale rispettarli. Erano persone talmente autorevoli che il rispetto nei loro confronti era spontaneo. Ho trovato un clima di grandissima libertà, ma anche di grandissimo coinvolgimento. Se avevo un problema bastava che chiedessi aiuto e venivo ascoltato. I miei problemi e le mie lacune le ho colmate chiedendo. Ho imparato moltissimo mentre lavoravo.

Che ambiente trovò in Olivetti?

L’Olivetti, dal punto di vista di relazioni umane, era veramente leader nel nostro Paese. Tutte le altre aziende erano certamente educate verso i loro dipendenti, ma nessuna coma l’Olivetti, che aveva veramente a cuore il benessere dei suoi dipendenti. La prima cosa di cui mi sono occupato sono stati gli assegni magnetici, che portano ancora sulla parte bassa due spazi più larghi e tre un po’ più stretti. La posizione di questi spazi determina il codice di lettura. La macchina che leggeva questi codici l’aveva progettata Perotto e io mi sono occupato della messa a punto, verificandone il suo funzionamento e collegandola ad una macchina Olivetti già esistente. Nel giro di sei mesi avevo già realizzato qualcosa. Dopo una serie di altri lavori di impegno e difficoltà crescente, si arrivò così alla fatidica data in cui cominciarono i lavori alla Olivetti P101.

La P101 prima di essere realizzata era un prodotto inesistente, nel senso che non esistevano esemplari simili nel mondo. Come andarono i lavori?

I lavori alla P101 cominciarono con un profondo studio di fattibilità del prodotto, inizialmente puramente teorico. Volevamo realizzare una macchina che non si limitava solamente a fare le quattro semplici operazioni che già facevamo con le macchine meccaniche. Allora produrre le macchine meccaniche costava 39 mila lire, ma poi venivano rivendute a 390 mila lire. Per la Olivetti investire in questo prodotto non avrebbe portato i ricavi sperati. Bisognava fare qualcosa di livello un po’ superiore. Così cominciammo a lavorare al prototipo della P101.

Non sapevamo ancora che macchina dovevamo creare, nel senso che non esisteva ancora nulla di simile sul mercato. Tuttavia per me i vincoli erano chiarissimi: doveva essere facile da utilizzare, alla portata di un utente non professionista. L’accessibilità doveva essere il suo tratto caratterizzante. In secondo luogo doveva essere di dimensioni ridotte. Infine doveva costare il meno possibile.

Guidati dall’ingegnere Perotto quindi, cominciammo a lavorare su questo progetto elettronico. Allora la prima cosa da fare era decidere il tipo di memoria da installare nella macchina. Certamente non avevamo la possibilità di andare in negozio e scegliere tra diverse decine di memorie a nostra disposizione. In quegli anni c’erano ben poche memorie. In particolare c’era la memoria a nuclei, che però non andava bene per le ridotte dimensioni della nostra futura macchina. L’ingegnere Perotto lo capì subito, io un po’ dopo. (sorride) Dopo uno studio sul tipo di memoria da scegliere ci siamo orientati su un tipo di memoria di passata generazione, che erano state ormai dismesse (la memoria di lavoro era a linea di ritardo magnetostrittiva). La tecnologia dell’epoca ci forniva delle memorie che non andavano a rispettare i vincoli che ci eravamo imposti, così abbiamo utilizzato delle componenti del passato, per realizzare la “macchina del futuro”.

I prodotti rivoluzionari come fu la P101, si apprezzano quando sono pronti. Dietro alla loro realizzazione c’è sempre però un grosso lavoro. Quanto avete lavorato a questo progetto?

Ci siamo messi a lavorare a testa bassa, giorno e notte, molte volte senza renderci conto che era già arrivato il weekend. In alcuni periodi non esisteva la domenica intesa come giorno di riposo. Non esistevano morose con cui passare il pomeriggio. Tutto ciò però non lo ricordo come un peso, ma come il più elettrizzante periodo della mia vita. Dovevamo arrivare primi. Io credo che bisogni arrivare per primi in certe cose, che non significa strafare, ma impegnarsi e spendersi al massimo per raggiungere i propri obbiettivi. Correre dietro è molto peggio che fendere l’aria.

Non ha mai sentito il peso della fatica in quello che faceva?

Non esisteva il concetto di fatica per noi. Era completamente superato dall’interesse che c’era per quello che facevamo. Ci sentivamo un po’ pionieri in un mondo in cui avevamo spesso progettato parti di circuiti elettronici, ma mai una macchina per intero. Procedevamo per tentativi ed errori, ma mano mano che si procedeva aumentava l’esperienza.

Come siete arrivati ad Ivrea?

All’inizio lavoravamo nei laboratori di Borgolombardo (Milano), dove siamo rimasti per circa due anni, all’incirca fino all’autunno del 1961. Poi invece ci siamo spostati a Pregnana dove ci sono ancora i grandi capannoni che sarebbero dovuti poi diventare i grandi laboratori della Olivetti. A Pregnana abbiamo realizzato tutto il progetto elettronico della macchina. Dopo un anno, capito che la macchina si poteva realizzare, Perotto ha cominciato a gravitare attorno ad Ivrea, perché avevamo bisogno di una squadra di persone che si dedicassero esclusivamente alla realizzazione di questo progetto. Avevamo bisogno di meccanici, di persone che realizzassero l’ingegneria della macchina, e di persone che realizzassero circuiti speciali allo scopo di far consumare meno corrente possibile al calcolatore. 

L’Italia è un Paese ancora capace di accogliere la tecnologia?

Quando c’è qualcosa di veramente innovativo, non so se l’Italia sia il miglior paese dove raccontare tale innovazione. Da questo punto di vista forse gli Stati Uniti sono un paese più pronto mentalmente, più pragmatico e più abituato a comprendere le novità.  Ma questo avviene solo nelle fase iniziali. Anche la Olivetti inizialmente era poco più che un’isola rispetto al resto del Paese. Un sacco di persone non sapevano nemmeno che esisteva questa azienda.

Ma io credo che l’aspetto su cui dobbiamo ragionare sia il seguente. Oggi il mondo è sicuramente cambiato e noi siamo abituati ad accettare qualsiasi cosa nuova con estrema facilità. La sfida è capire cosa, in questo marasma di novità, crea veramente innovazione, intesa come la realizzazione di qualcosa di utile per la nostra vita. Che cosa incide davvero nella nostra vita? Ecco, se ciò che inventiamo o realizziamo incide in maniera che non è ovvia, banale, scontata, allora forse altri paesi sono più ricettivi, ma l’Italia di certo non è da meno, perché di prodotti di qualità ne fa quanti ne vuole. L’importante come dicevo, è capire cosa, tra le tante novità, è veramente utile per migliorarci la vita.

Che cosa sente di consigliare ai giovani che oggi hanno in testa un’idea che credono essere rivoluzionaria?

Se un giovane si innamora di qualche idea, spendere un po’ di risorse e di tempo per approfondirne la fattibilità è sempre possibile e oserei dire anche doveroso. I laboratori dei makers sono un esempio tangibile di questo fermento giovanile che c’è oggi. Io vedo questi eventi in maniera estremamente positiva. Questo fermento io lo chiamo “l’artigianato della tecnologia elettronica”. I computer in serie che ogni due anni raddoppiano le proprie capacità di calcolo li fanno già le grandi aziende. È inutile che questi prodotti vengano fatti dai makers. Ai makers associo il “mondo delle varianti”, cioè quell’approccio per cui dato un prodotto industriale prodotto in serie, si cerca di studiarne le mille varianti possibili che quel prodotto può avere. Se pensiamo al software è accaduta un po’ la stessa cosa nei trent’anni compresi tra il 1970 e gli inizi degli anni 2000: l’artigianato del software, ovvero il bisogno di variare, personalizzare ed adattare decine e decine di software standard, ad esigenze particolare. Negli ultimi quindici anni forse è avvenuto il processo contrario: si sta cercando di standardizzare molte parti di software per poi eventualmente specializzarlo in altro. I makers smontano gli standard e provano a mettere alla prova l’esistente. L’importante, alla fine dei conti, è poi però l’utilità effettiva che queste attività hanno. Io non mi sbilancio perché non mi sento sufficientemente competente.

Che cos’è per lei l’innovazione?

L’innovazione è avere qualche esigenza insoddisfatta. Per tornare alla mia storia, io credo che il fatto di lavorare alla P101, non sia stato da subito un qualcosa di innovativo. Per me inizialmente era soprattutto una forte esigenza. Se ripenso a quando all’università facevamo i calcoli col regolo con cui spesso si sbagliava, l’idea che si potesse creare una macchina che mi aiutasse con estrema velocità e precisione a fare quei calcoli, per me rappresentava la soluzione ad una mia esigenza reale. All’esigenza va messa insieme una qualche competenza tecnica necessaria a realizzare nel concreto la propria idea.

L’innovazione vuol dire voglia di andare nel deserto inesplorato, sperando di trovare un’oasi, una soluzione che però non ci siamo trovati già pronti, ma che abbiamo realizzato noi.

Rifarebbe tutto quello che ha fatto?

Assolutamente sì. Anche se parlo col senno del poi. Uno non può sempre proiettare la propria vita e non sa cosa può accadere nel futuro. Certo è che più che l’esperienza in Olivetti in sé, mi piacerebbe rivivere lo spirito di quegli anni, che fondamentalmente è stato uno spirito estremamente positivo, ottimista, entusiasta. Dalla mia esperienza ho imparato che di fondamentale importanza è l’impegno e l’autocritica, che un po’ manca al giorno d’oggi. L’innovazione vuol dire anche essere convinti, determinati e alimentare la propria molla interiore. Aiuta molto essere introdotti nel mondo della tecnologia, soprattutto oggi che è ormai diventata pervasiva. Tutto nasce da un giusto equilibrio tra una forte spinta propulsiva e una grossa capacità critica che deve autoregolarsi dentro di noi.

Cosa ha imparato dalla sua esperienza?

Che non dobbiamo mai restare fermi. Ma pensi a Steve Jobs! Cosa ha fatto per fare quel che ha fatto? Non è che ha inventato chissà cosa. Ciò che fatto la differenza però è stata la sua continuità, la sua voglia di lottare, il suo carattere ferreo, che gli hanno permesso di trasformare un’azienda che stava per fallire nell’azienda che conosciamo oggi. Che cosa faceva Jobs? Di fatto faceva quello che facevano tanti altri, ma ovviamente con una cura dei dettagli e di alcuni aspetti che gli hanno permesso di fare la differenza. Oggi le aziende cavalcano l’onda per un paio d’anni e quando sentono che è necessario reinventarsi si arrendono e si siedono. Steve Jobs? Altro che seduto! Quello lì avevi gli spilli sotto il sedere che lo mettevano continuamente in movimento. Non si è mai adagiato e non ha mai mollato, e certo lo ha aiutato molto il suo carattere. Oggi dobbiamo restare sempre in movimento, senza mai sederci, perché l’innovazione è movimento.

Insomma, per chiudere, io credo ci vogliano sempre due cose: voglia e fortuna. E per fortuna intendo un contesto non ostile a ciò che vogliamo provare a fare. Intendo la fortuna come insieme di condizioni al contorno favorevoli, che non si oppongono a quello che potremmo voler fare oggi. Se in Olivetti fossimo tutti stati più tranquilli, più rilassati, meno determinati, probabilmente non saremmo mai arrivati dove siamo arrivati. O uno ci mette tutto se stesso, oppure non credo ne valga la pena.

3 commenti

  1. Ciao, bellissima intervista grazie per averla pubblicata!
    Vorrei poter contattare Garziera o De Sandre se possibile. Ti hanno lasciato qualche recapito? Se si potresti passarmelo in privato?
    Ieri a Expo ho avuto la fortuna di poter toccare una programma 101, emozione indescrivibile!
    Complimenti per il blog, un saluto, Andrea Favero.

    1. Caro Andrea,
      grazie per aver voluto leggere questo post. Puoi immaginare l’emozione che da informatico ho provato nell’ascoltare due personaggi del genere. Io Garziera e De Sandre non li ho contattati appositamente; come scrivo infatti, li ho intercettati alla Mini Maker Faire di Trieste. Purtroppo non ho dei contatti diretti, ma non credo sia difficile comunicare con loro, perché sono entrambi molto molto disponibili.

      Un saluto
      Matteo

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